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Conception théistique dans la culture contemporaine.

(résumé)

Le but de cette communication est de prouver que les plus grands acheminements philosophiques contemporains ne réussissent point à nous donner une conception cohérente du monde, soit parcequ'ils nient le transcendant, qui, malgré la négation, est introduit en cachette dans le système, soit parcequ'ils fournissent une fausse conception du transcendant. On prend d'abord en examen la conception positiviste dans ses présuppositions générales et l'on démontre qu'elle construit le monde avec des éléments insuffisants et, pendant qu'elle nie la transcendance, la reconfirme sous le nom de nature ou n'importe de quelle autre façon. On examine ensuite l'idéalisme italien et l'on démontre qu'il ne réussit pas à son tour à nous donner une conception cohérente de la réalité et, malgré ses efforts hardis de faire place nette du transcendant, celui-ci se représente avec une obstination surprenante, soit sous le nom d'esprit universel, soit en toute autre manière. L'acheminement mystique est loué dans son vrai côté, mais il est désavoué lorsqu'il prétend à une solution intégrale de la réalité. On passe ensuite en revue ces acheminements, aujourd'hui très appréciés, qui prétendent de réunir ensemble le transcendant et l'immanent. Cela va sans dire que l'on critique indirectement les acheminements modernistes pour le fait qu'ils se basent sur la présupposition du devenir idéalistique ou psychologistique. On s'arrête même sur la critique de cet acheminement, parcequ'il réunit les motifs des systèmes de l'immanence et ceux des systèmes de la transcendance. On prend le motif de là pour montrer quel est le cancer de la culture contemporaine, c'est à dire la prétention d'étendre à la réalité entière le devenir. C'est pourquoi sous le guide de la pensée aristotélique-scolastique on trace les lignes d'un acheminement nécessaire pour libérer la culture de son intime contradiction.

P. ROMUALDO BIZZARRI
Cappuccino, Siena,

Il problema pratico della filosofia
e la visione mistica della vita.

La filosofia, come filosofia, non potendo contenere tutto il reale dello spirito, e tanto meno, trarre da sè leggi che non crea, prende a prestito da altre forme di conoscenza tutto ciò che può collaborare al suo processo e al suo divenire; perciò, come conoscenza eterogenea, è tecnica. Come determinazione del contenuto del pensiero, e come analisi e critica del mondo che questo pensiero riflette, inverte l'ordine della realtà in una forma di concettualizzamento che si esaurisce nel pensiero stesso senza nulla approfondire o rivivere.

Pare un paradosso ed è così: la filosofia, come definizione della vita come logica, della verità come principio, è tanto più conosciuta quanto è meno praticata. La realtà che la filosofia conosce è ontologica e intellettuale per definizione, sorretta da un vinculum perceptionis di fronte al quale la coscienza è muta e il volere e l'amore dell' essere non sono che un dato intellettuale e un postulato morale. Il mondo della filosofia è mondo di criteri d'estimazione senza metodi conclusivi e senza certezze sufficienti, o, almeno, con tali metodi e con tali certezze che la nostra azione è sempre pronta a trasformare e a negare.

Il concetto è sempre concetto di un concetto; cioè, è nulla. Oltre e sopra questo nulla, non c'è che la vita, che ha una logica interna, compatta, incommensurabile che si chiama Dio. La vita trae da sè e per sè la sua storia, che è la volontà operativa, come trae da sè e per sè le sue leggi che sono il fondamento della sua essenza; creando sè stessa, crea altre vite, imprime al mondo un carattere di regola e di necessità umane. La vita è in quanto è praticata di fatto, e in quanto è praticata di fatto, ha un'immagine, un pensiero. Ogni norma, ogni sanzione vive della sua azione. « La vita trova il proprio obbligo ad agire col potere stesso che ha di agire. Ma lo svolgimento di essa è tutta nell'ordine dei fini d'applicare nel centro della vita etica indistrut

tibile. Il problema pratico, in fondo, non è che un problema etico. Non basta.

Noi abbiamo definito, finora, un problema; cioè, abbiamo fatto della filosofia. Comunque si voglia riguardare il problema filosofico, anche nella sua essenza più pragmastistica, il problema è quello che è; quello che non è problema filosofico, è la vita, perchè la vita è il problema di tutti i problemi. Come problema di tutti i problemi, noi non possiamo seguirla su un terreno filosofico; bisognerà seguirla su un altro terreno, cioè, considerarla attraverso quel metodo concreto che meglio risponde all'impostazione pratica del problema.

E' evidente (a parte ogni motivo di critica che ci si può muovere per la forma extrafilosofica della nostra esposizione che trova la sua piena giustificazione nel carattere stesso della nostra Mistica) che il problema centrale della Vita riguarda la Vita come metodo. Ma il metodo, per noi, è tutto il fluire, il compiersi, lo svolgersi, il morire e il rinascere della Vita. E cioè, la Vita in azione e funzione di bene.

Per questa via noi dovremmo necessariamente accennare a questa azione e funzione di bene. Ma non si aspetti da noi un'esegesi del concetto di bene. Anche quando noi arrivassimo all'ultima delle enunciazioni filosofiche, che il bene è la volontà pura o trascendentale, noi non abbiamo ancora detto che cos'è questo bene, come non spieghiamo che cosa è l'azione quando diciamo che la vita è azione.

Il bene è bene in quanto è attuato e la vita è azione in quanto è agita secondo questo bene. Non esiste entità reale del nostro spirito che non sia di fatto praticata; le altre entità sono tutte irreali, pensieri, immagini vuote.

Ora la nostra attività, per tre quarti, è riempita di queste immagini, che noi scambiamo sovente per entità spirituali, ricamando su queste un mondo simbolico o fittizio di vita etica. La nostra vita non attua che una minima parte delle nostre conoscenze intellettive, come non attua che un minimum di regole morali; tanto quanto basta per la sua esistenza effettiva. Ridotta alla più piccola espressione, la vita non è che un fuscello in balia d'un vento impetuoso di certezze e d'un mare più impetuoso di mistero.

La nostra vita è semplice: e questo carattere di semplicità che le è data dalla sua storia non scritta, ma non perciò, meno vera e pro

fonda le è data da quel poco di esigenze interne che, sole, bastano per farla vivere in comunione e renderla eterna.

Se noi, per un momento, riuscissimo a spogliare la nostra vita quotidiana dal cumulo di idee, di concetti, di convenzioni, di abitudini, di pregiudizi, di norme, di leggi che la storia, la filosofia, la cultura ci profondono, ogni giorno, a piene mani, con un senso d'infinita generosità alla quale quasi mai intimamente rispondiamo, il problema della vita sarebbe già bello e risolto; la sua soluzione significherebbe, forse, il primo passo verso la sua totale affrancazione. Il problema della libertà, in fondo è tutto qui.

Ora, che cos'è che chiama alla Vita? Alla vita chiama la vita stessa, e tutto quello che questa vita ama, contempla, riflette. Alla vita chiama il nostro io, con le sue leggi morali, la natura, con le sue leggi cosmiche, Dio con le sue leggi divine. Vita, vitae Deus!

Tutto questo chiamare è una constatazione fulminea del nostro spirito; quando accenna a diventare sentimento, esso è già sperimentato e provato; quando, poi, diventa ragione o conoscenza, ha il pallore delle

cose morte.

Il mondo del nostro io e il mondo esterno si conquistano in virtù di una potenza ferrea che ci lega a noi stessi (legge morale), all' universo (legge cosmica), a Dio (legge Divina).

In questo legame non c'è posto alcuno per la ragione come limite; quando essa subentra, il legame sparisce; il mondo del nostro io è finito.

lo posso comprendere il mondo dell'io e il mondo esterno come voglio, anzi, come posso; ognuno comprende il mondo come può; lo posso comprendere come santo, come filosofo, come artista, come operaio; si tratterà di vedere il punto d'incontro di tutte queste visioni, il vertice comune da cui le altezze si devono considerare. Il vertice comune è Dio, ma per arrivare a Dio bisogna vedere il cammino che si deve percorrere.

Abbiamo detto che ognuno ha una propria visione del mondo; ma quel che più interessa, ai fini del problema morale o del problema pratico, è di vedere l'utilità spirituale di questa visione. Noi diciamo che questa utilità dipende dalla sua maggiore o minore attuabilità o adattabilità alla vita pratica, dalla sua maggiore o minore compartecipazione alla vita individuale e collettiva. Evidentemente, non è su un elemento di simpatia che codesta compartecipazione avviene; e neppure, su un elemento di connivenza o convenienza sociale.

E allora, quale sarà questo elemento?

La vita ha un elemento in sè che è comune a tutti; nasce con l'uomo, vive con l'uomo, muore con l'uomo, sempre, eternamente. Questo elemento fornisce all'uomo la visione d'un'identità umana universale; vedendo sè, l'uomo vede gli altri, vede gli altri di ieri, di oggi, di domani, vede i morti e quelli che dovranno nascere, come lui. Conosce, attraverso questo elemento, la vita di ieri, come conosce la vita di domani, poichè nel tempo e nello spazio, questo elemento comune è pressocchè uguale in tutti gli individui e in tutti i popoli. Questo elemento è la religione. La storia dell'uomo non è che la storia della sua religione. Ma la storia di questa religione non è che la storia su questa religione e cioè, la storia propriamente detta, la filosofia, la cultura. Storia, filosofia, cultura girano ininterrottamente su questa religione senza mai venire a capo di nulla. Quando credono di venirne a capo, esse non ci sono più; la religione le ha disperse. Ecco, perchè i momenti caratteristici della storia dell'uomo sono contrassegnati dall'avvento delle grandi esperienze religiose. Ed ecco perchè le grandi esperienze religiose sono le vere filosofie dello spirito umano.

La religione, si dirà, è un sentimento, e come tale, è una visione della vita. Ma non basta dir questo. La religione ha bisogno di un'esperienza esterna, d'una pratica, di un'etica; ha bisogno, cioè, che informi una vita di un'altra vita, un essere d'un altro essere, un'idea di un'altra idea, un fatto d'un altro fatto, un bene d'un altro bene. La religione, cioè, bisogna che compia il suo cammino nell'umanità.

Come lo compie questo cammino? Questo cammino lo compie col trasfondere una vita esemplare in altre vite, in migliaia di vite, nelle infinite creature che le stanno vicino; lo compie sulla base d'una rinnovazione integrale del mondo circostante, a prezzo di una rivoluzione spirituale che spazzi quel che di cattivo, di offensivo, di pernicioso è nel cammino immortale dell'uomo. Questo cammino, perciò, si compie mercè una personale testimonianza, un sacrifizio personale, una personale ascensione, un personale martirio. Con quali mezzi?

I mezzi son quelli che la filosofia non ha, e non potendo avere, non può improntare di sè un'altra vita, un' altra generazione. Non esistono generazioni platoniche nè esistono generazioni kantiane; se Cristo avesse sofisticato, sarebbe stato Socrate, non sarebbe stato Cristo; e se S. Francesco avesse studiato Averroè, sarebbe stato un nominalista, mai

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