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senso si trova invece, vivissimo nella poesia e nella religione indiana. Senonchè ivi ci troviamo di fronte ad una espressione panteistica, nella quale la fratellanza degli esseri è concepita sotto specie di identità immanente e non sotto specie di rapporto fraterno, il quale evidentemente in tanto esiste in quanto c'è un Dio trascendente, padre di tutte le creature.

Primo S. Paolo nel passo VIII, 21 della Lettera ai Romani chiamò tutte le creature alla stessa libertà degli uomini, inserendo in esse la vita dello spirito nei suoi caposaldi di colpa e di redenzione. Ma il suo messaggio è confortato anche da altri passi: I Corinti, XV, 28, Efesii, I. 10, Colonesi I. 20. Non raccolto dalla Patristica latina, nè sviluppato dalla Scolastica, affiora via via invece luminosamente nella Patristica greca (S. Basilio, S. Giovanni Crisostomo, Nemesio) e nella tradizione agiografica popolare medioevale, per rivivere intero nell'esperienza e nell'ammaestramento di S. Francesco. Nella punizione dell'uccello ingordo e della troia che « non perdonando a vita innocente » divora l'agnello appena nato, è affermata infatti apertamente una legge morale anche per gli animali.

«

Ma soprattutto essa appare manifesta nel famoso episodio del Lupo di Agobbio perdonato e redento». Questa stupenda inserzione di vita spirituale nelle creature è da intendersi, naturalmente, non come adeguatezza di tutte le creature all' uomo,chè altrimenti tutte sarebbero uomini-ma come unione di tutte le creature in una graduale continuità psichica, al di sotto (animali, piante ecc.) e al di sopra dell'uomo (eventuali abitanti di altri mondi superiori, creature angeliche). Essa spezza il cerchio dell'antropocentrismo non solo filosofico, ma religioso. In verità alcunchè di singolarmente simile era già nella tradizione pitagorica (Orsa daunia), ma lo scarso senso del trascendente ancora lo inquinava. Dall'estensione della vita spirituale a tutto il cosmo prende peculiare valore la dottrina della incarnazione, non più come atto indissolubilmente e necessariamente legato al peccato originale (S. Anselmo, S. Tommaso), ma inserito, secondo che ammette una grandiosa tradizione cristiana (soprattotto greca), della quale esistono testimonianze anche in padri e scrittori della più rigida ortodossia cattolica (Duns Scoto, S. Francesco di Sales) nel processo della creazione infinita nel tempo e nello spazio. Codesta concezione, mentre da una parte dà un'ampiezza di respiro alla speculazione sulla vita umana e toglie l'uomo dallo stato di isolamento in

cui volontariamente s'è voluto chiudere, riconduce dall'altra l'uomo stesso a un giusto senso di umiltà: non più re o tiranno di tutte le creature, ma creatura egli stesso tra le creature di Dio e fratello tra infiniti fratelli maggiori o minori. E la terra non più mondo presuntuoso e orgoglioso, che si arroga il diritto di essere solo centro di vita in un cimitero di mondi tanto più grandi e più luminosi di lei, ma umile pianeta, provincia, borgo, villaggio, capanna, casolare, degli interminati spazi del cielo.

Senza l'alata speculazione di Paolo, senza l'esperienza profonda di Francesco, l'opera stessa divina dei Vangeli, la tradizione stessa grandiosa dei Padri e dei Dottori rimarrebbe incompiuta albero stupendo di giardino, ma non ancora di selva, cattedrale di marmo, ma non ancora esperienza cosmica.

GUIDO MANACORDA
R. Università di Napoli

Due concezioni antagonistiche
di Filosofia della Religione.

L'ideale faticosamente perseguito dal pensiero è a distanza di secoli--quello stesso che dogmaticamente formulava l'antico Parmenide di Elea: τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν εστίν τε καὶ εἶναι (1) Come la verità di fatto è il punto di partenza psicologico sottostante, come dato inevitabile, a tutte le ricerche filosofiche, così, come l'altra faccia della medaglia, lo aforisma parmenideo, vuole essere la meta definitiva di quelle ricerche. Ed è soggetto a quella stessa varietà di progressive interpretazioni alle quali è soggetto quel punto di partenza; emerge da questo come la sua interpretazione metafisica ultima. Tutta la storia della filosofia si svolge attorno a questi poli del pensiero e siffatto svolgimento è appunto il pensiero autocosciente che si valuta di grado in grado sempre più profondamente. Nel suo punto di partenza il pensiero si valuta come mera passività e ricettività, come semplice avvertimento di alcunchè di estrinseco che trascende il soggetto. Il progresso filosofico vuole essere lo sforzo che il pensiero compie ad adeguarsi all' Essere, a farlo suo, ad

(1) Płat., Soph., 238 c.

eliminare, o, almeno, a menomare la trascendenza dell'oggetto, a dimostrare che questa può conciliarsi con l'esigenza immanente ad esso pensiero d'inserirsi nell' Essere, anzi, di mettersi in perfetta equazione con esso, in modo che si possa legittimare ogni affermazione cogitativa come una rivelazione dell' Essere. Il che è evidente che allora potrebbe riuscire pienamente quando il pensiero fosse considerabile come un' autorivelazione dell' Essere, come una crisi attraverso la quale la realtà diventi cosciente di sè.

Or non è da escludersi che la verità di fatto (1) nelle sue fasi di svolgimento, confermandosi e sempre più spiegandosi, ci conduca legittimamente a conchiudere che il pensiero è una progressiva rivelazione. che l'Essere fa di sè a sè stesso. Essa, che, nella sua espressione iniziale, è avvertimento, o rivelazione (intuizione) implica altresì una immanente interpretazione (giudizio) da cui lo stesso avvertimento formalmente dipende come da una maggiore rivelazione, senza la quale la prima sarebbe senza valore, come se non fosse. Può essere erronea una interpetrazione, ma non apparisce tale se non ad una successiva interpetrazione, che chiarisce l'errore come un momento della verità ulteriormente raggiunta. In quella discriminazione, che è la coscienza, la interpretazione è immanente e sottostante ad entrambi i termini dell'avvertimento soggetto avvertente ed oggetto avvertito ed il progresso gnoseologico è contrassegnato da un crescente emergere della interpetrazione, come il profondo soggetto che si cela nel soggetto empirico, ch'è, in fondo, oggetto anch'esso: oggetto, voglio dire, di un più profondo avvertimento, ch'è, appunto, l'autocoscienza, come autorivelazione che quel soggetto sottostante fa a sè stesso, attraverso singoli momenti che costituiscono una serie giammai compiuta. Questa autorivelazione è altresì, una autoposizione ed una autolimitazione; l' Essere, cioè, si rivela in un aspetto essenzialmente dinamico-o statico-dinamico, quando quella verità di fatto, dalla quale emerge l'interpetrazione come una sua discriminazione, si ricostituisca, attraverso a tale interpetrazione, nel suo valore integrale, che è pratico, tanto a parte ante, quanto a parte post della discriminazione medesima. Già questa considerazione dell' ante e del post è alcunchè di transeunte e di fenomenico, che, ad intermit

(1) La verità di fatto è oggetto di un mio lavoro d'imminente pubblicazione; qui ne dico quanto basta per la sua applicazione come criterio.

V Congresso Filosofico.

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tenze, apparisce e sparisce riassorbito nell' Essere integrale senza tempo e senza limite al quale tende, come alla sua meta definitiva, la sempre rinascente interpetrazione emergente dalla verità di fatto. Quell' ante e quel post sono fatti, sono prodotti di attività pratico-teoretica, prodotti, per dir meglio, del Fare, rotto da intermittente conoscenza, il cui oggetto presentasi, appunto, come l'ante constatato dalla conoscenza, che vi s'inserisce per accrescerne la complessità successiva e progressiva. La conoscenza nel suo primo apparire è, appunto, constatazione (avvertimento; e nella constatazione, quell' ante, che è il Soggetto assoluto trascendente, ma, altresì immanente nel soggetto empirico, apparisce come oggetto trascendente, ma per ricostituirsi soggetto operante, che è, infine, l'Essere statico-dinamico, cioè, l'unive.sa realtà dinamica in continua tensione. Basta, ora, considerare che quella certezza, riposta dalla realistica conoscenza ingenua nell'oggetto, rivelasi ad una più profonda e matura interpret zione come immanente nello stesso soggetto empirico, per intendere come qui, solo qui, nell'autocoscienza empirica, l'apparire sia tale da coincidere, sia pure per un attimo, nelle intermittenze gnoseologiche del Fare, con l'Essere, e come quell'attimo di coincidenza sia sufficiente per dare al soggetto empirico la rivelazione del valore che gli viene dal Soggetto assoluto (Essere statico-dinamico) ma, altresì, l'illusione di una sua identificazione con questo, di una identificazione, cioè, del finito con l'Infinito (in una serie giammai compiuta di autorivelazioni e di autolimitazioni), illusione presto smentita dall'avvertimento indefettibile e rinascente del bisogno di sempre ulteriori determinazioni. Quell'ante e quel post sono ciò che l'interpretazione, emergente dalla verità di fatto considera come due suoi limiti, uno dei quali è oltrepassato e l'altro è oltrepassabile: entrambi, appena fissati dall' interpetrazione, sono oggettivati, mentre quella chiede ben più, chiede l'Essere senza tempo, che non può in alcun modo oggettivarsi. Ora l'oggetto-ch'è nel tempo-è nascimento, natura. Quel ch'è fuori del tempo, quel ch'è postulato dell'azione nelle sue intermittenze gnoseologiche, vuole essere soprastante alla natura-il sovrannaturale. Questo è, bensì, trascendente, ma non oggetto: è soggetto, non empirico, ma assoluto, che, quantunque trascendente il soggetto empirico, pur gli è immanente, è il suo essere dinamico, è il sovrannaturale che crea la natura come serie interminata delle sue autorivelazioni che sono altret

'tante autolimitazioni superate continuamente da una immanente autopo

sizione.

Or questa interpetrazione, più o men chiaramente intravista, è sottostante ad ogni dottrina filosofica, ma non può conchiudersi in una formola teoretica, poichè il suo contenuto sfugge alla oggettivazione, per essere esso il soggetto stesso nella sua dinamicità pratica, sicchè è Pensiero-Vita piuttosto che Pensiero-Conoscenza. Ma, quando cede al prepotente bisogno della oggettivazione, il soggetto empirico n'è come abbagliato. Vedasi nell'Azione del Blondel il principio del capitolo dove l' A. (1) parla di Dio, del suo rivelarsi al soggetto empirico. In quel momento, appunto, sorge la religione come vita piuttosto che come teoretica contemplazione: quest'ultima è facilmente vinta e assorbita dalla filosofia; non l'altra. Ma religione e filosofia non contrastano quando, come ben videro i pensatori dell'ultima fase della Scolastica, siano mantenuti ben distinti i rispettivi campi di azione; questo dell'azione conoscitiva fides quaerens intellectum, ch'è propriamente filosofia, e quello dell'azione definitiva nella quale riconvertesi la prima, ch'è solo un' intermittenza in seno alla seconda-intellectus quaerens fidem.

Se quella interpetrazione ch' emerge dalla verità di fatto come un più profondo avvertimento sottostante alla discriminazione dei termini -soggetto ed oggetto-dell'avvertimento empirico è la molla dell'oggettivazione-e, in tal senso, può dirsi funzione produttiva di entrambi quei termini nella forma della conoscenza-d'altra parte, come fonte di certezza inoppugnabile, essa non è produzione, è rivelazione dell' Essere, è, per dir meglio, autorivelazione del Soggetto assoluto nella forma dell'autocoscienza, dove il soggetto empirico (il soggetto-oggetto, il me) solo praticamente, non gnoseologicamente, coincide con l' Io, nel senso che la coincidenza è un' autolimitazione promotrice di ulteriore progresso a nuove e inesauribili autolimitazioni, è, insomma, il vtvere che primeggia sempre sul philosophari e al quale questo tende ad adeguarsi, ma non si adegua mai pienamente. Certo quell' Essere intravisto progressivamente nelle intermittenti rivelazioni gnoseologiche noi l'oggettiviamo o idealizziamo in qua'che modo e perfino lo degradiamo fino al livello dell'azione superstiziosa e del pensiero mitologico. E, per questo

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(1) M. Blondel, L' Azione, Firenze, Vallecchi, 1921, Vol. II, P. IV. pag. 108.

Il conflitto 3 momento ».

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