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esigenze religiose del cittadino. In ciò si contraddice: in ciò il Contratto Sociale rappresenta proprio uno stato d'incertezza, come ha notato bene il Masson (!), tra una concezione dello Stato come autonomo, e la teoria cristiana.

Contraddizione che si perpetua in tutti i suoi seguaci, i quali affermano la necessità della religione per lo Stato, come sostegno della morale, e nello stesso tempo cercano di subordinarla allo Stato medesimo: e trova chi tenta di tradurla nella realtà politica in Napoleone, e la sua espressione tipica nel Concordato.

Per uscire dalla contraddizione, bisognava che, o lo Stato rinunciasse alle sue pretese, si limitasse alla sfera dei rapporti giuridici, si confinasse per così dire sulla terra, riconoscendo l'esistenza del Cielo; o che facesse un passo più avanti, che uscisse da questa sfera dei rapporti giuridici, o che tentasse di allargarla fin a comprendere in essa tutti gli altri che tentasse di ridurre alla terra anche il cielo. Bisognava cioè che si affermasse l'autonomia della morale, e che si celebrasse lo Stato come << sostanza etica ». Quest'ultimo passo, com'è noto, è stato fatto dalla filosofia idealistica: e non credo che occorra spiegare in che modo. Questo indirizzo sembra che oggi prevalga. Io vorrei qui soltanto far notare come, di fronte alla coscienza religiosa, e di fronte alla storia, questa filosofia, che afferma di essere tutta impregnata di spirito cristiano, si presenti invece come paganesimo.

ALBERTO PINCHERLE

(Roma)

(1) La religion de J. J. Rousseau - Paris, 1916, vol. II.

Presupposti intellettualistici

del problema della immanenza e della trascendenza.

(Sunto)

Considero l'immanenza e la trascendenza come problema, più che per il loro carattere di soluzioni. Il problema è divenuto centrale e decisivo. Caratterizza i sistemi. Discrimina le concezioni filosofiche. Non senza ragione. Lo sviluppo del pensiero idealistico, che è sviluppo del concetto della possanza creatrice dello spirito, doveva rendere secondaria la posizione gnoseologica, doveva superare il teoreticismo e rinnovando la metafisica porre il problema dell'assolutezza dello spirito.

Il criticismo è la prima sistematica consapevolezza che lo spirito acquista della sua funzione informatrice del mondo dell'esperienza. È conquista stabile, non però finale e decisiva. Lo stesso realismo ricerca tra le sue rovine titoli di rivendicazione di un concetto analogo.

Tramonta la concezione che il destino dell'uomo, il vertice della sua potenza, la virtù suprema consistano nell'intendere una realtà che è già e che resta sostanzialmente quel che è. Questa concezione ellenica che conduce logicamente a una esplicita o implicita pretesa di sovranità dell'intelletto — persiste per il favore della filosofia della Chiesa, dove suscita le reazioni volontaristiche e fideistiche; ma va cedendo il posto alla concezione d'una funzione spirituale carica delle responsabilità dell'azione, anzicchè delle gioie della soggettiva contemplazione. Perciò l'intellettualismo non si vince, come alcuni pensano, restringendo il valore e la funzione del soggetto, risuscitando la sua astratta posizione di irriducibile finitudine; si può vincere approfondendo il concetto di

creazione.

È fasi di crisi quella d'una attività limitata, teoretica, informatrice più che creatrice. Il pensiero presto dissolve come residuo realistico il noumeno; il fenomenismo declina; è ponte tra il realismo e l'idealismo, ponte piuttosto sostenuto da quello che da questo.

Eccoci a una totale assoluta virtù creatrice. Ma da che la funzione si allarga quanto il reale, si assolutizza per necessità la possanza dello

spirito. Un soggetto creatore del mondo dell'esperienza non come fenomeno, ma come realtà, un soggetto mediatore dell'essere e non costruttore d'un duplicato mentale dell'essere non si comprende, se, anzicchè specifico ed esclusivo atto umano, non sia il principio stesso della realtà. Qui è la radice dell'esigenza storica e logica dell'immanenza di Dio e della reazione che in nome dei diritti della religione oppone la trascendenza.

Scarto i compromessi e i temperamenti che si trovano numerosi e tenaci nella storia del pensiero. Possono essere giustificati nella fase ingenua della questione, quando ancora non era problema; non valgono ora quando i concetti debbono essere rigorosamente pensati, e antiteticamente valutati.

Scarto l'originale e profonda soluzione blondelliana, sebbene io acconsenta alle principali esigenze che la ispirano.

Per Blondel l'intelletto è sovrano nel suo campo e non vi è realtà alcuna che gli sfugga. Ma l'intelletto ha funzione teoretica soltanto; pone i problemi, indica le condizioni della soluzione; non risolve realiter. La filosofia, come ogni scienza, è conoscenza del necessario, non dell'essere e del possibile. Il pensiero chiarisce e impone all'azione il problema decisivo: << è o non è?» Ma non ha funzione solutrice. Questa è un compito dell'azione trascendente, a cui inevitabilmente conduce l'esplorazione dell'immanente. Non mi ci feimo: occorrerebbero discussioni più complicate di problemi diversi. Sembra adunque che non mi resti se non scegliere tra due alternative precise: immanenza o trascendenza? Conoscenza o azione? Filosofia o religione? La scelta è il tormento di molte anime che temono l'orgogliosa esaltazione dell' io, sino alla divinizzazione, ma temono anche una trascendenza che schiacci la loro personalità; e non vogliono e non possono fermarsi al dualismo, che è problema; problema non soluzione.

Che vogliamo in fondo? La dualità separatrice tosto che è pensata esige di essere superata; anzi di essa si è consapevoli, essa nasce solo in quanto si determina l'esigenza dell'unità. Noi cerchiamo dunque una relazione che colmi l'abisso tra finito e infinito; ma insieme tale che non annienti il divino identificandolo con l'umano, perchè l'insufficienza dell'io è manifesta e desolante; tale che non annulli noi in Dio, perchè la personalità impone il suo valore.

Ora, è facile notare che nè l'immanenza nè la trascendenza ci ba

stano. Quando avrò scelto, mi ritroverò ancora di fronte alle lusinghe invincibili di ciò che ho scartato. Se ho scelto il trascendente, ho bisogno che sia mio, che aderisca alla mia attività la quale lo afferma. Se ho scelto l'immanenza, ho bisogno di uscire dalla solitudine dell'io, ho bisogno di un altro assoluto, ho bisogno di trovare un valore oggettivo del soggetto.

Riflettete non affermate la trascendenza che per negare l'immanenza; non affermate l'immanenza che per negare la trascendenza. La soluzione è sempre negazione d'un atteggiamento e d'un postulato iniziali opposti, che, essi, sollecitano segretamente e sostengono la soluzione, che riappaiono oltre di questa. Provatevi a pensare in sè stessa una delle soluzioni: non avrà senso. Ognuna si riporta alla sua contraria e vi si converte.

Riflettete ancora: voi respingete l'immanenza per fondati dubbi teorici e legittime preoccupazioni etiche emergenti da un soggettivismo che afferma l'io, come sufficiente a sè stesso. Bene. Ma per fondare la trascendenza, la trascendenza pensata con rigore, quale «aseità» dello assoluto, non siete costretti a presupporre che l'uomo è sè stesso, solo sè stesso, e il soggetto è un ente chiuso in sè, di natura esclusiva; e cioè non irrigidite proprio voi e di più il concetto soggettivistico dello spirito ?

Perciò debbo scegliere o non piuttosto cercare l'equivoco logico che mi impone le alternative e mi impedisce la scelta? Devo risolvere il problema o dissolverlo?

Considerando il problema come problema di relazione tra Dio e uomo bisogna cercare nel nostro concetto di relazione l'equivoco, se c'è.

Si usano spesso, senza critica, categorie e procedimenti validi per i rapporti tra cose, per le esistenze finite, che si limitano e si escludono a vicenda, come se siano validi anche pei rapporti spirituali, per azioni che s'includono a vicenda. Qui urge il pregiudizio intellettualistico d'un pensiero indifferente al suo oggetto, neutro, che si regge in sè, valido qualunque sia l'oggetto. Tale è il pensiero soggettivo.

Appunto: la relazione assoluta, il rapporto tra uomo e Dio, si concepiscono con categorie e procedimenti propri del finito, con la causalità, con la finalità, con la dualità esclusiva, con il parallelismo ecc., in breve come rapporto tra cose empiriche. Ed è questa posizione intellettualistica e teoreticistica, che impone le alternative inevitabili ma vane, che conduce alla trascendenza ed anche all'immanenza.

Ecco in scorcio i caratteri della relazione, come è d'ordinario concepita e che ci delude perennemente.

1) I termini sono concepiti come identità ciascuno con sè stesso. Dio è Dio, l'uomo è uomo. Per natura si escludono. Ogni vera azione dell'uno sull'altro appare degradazione ontologica e confusione concettuale, perchè è allontanamento dal concetto che lo chiude in sè.

2) I termini sono concepiti come preesistenti al rapporto, in questa loro natura esclusiva. Vi è l'uomo e vi è Dio; il rapporto sopraggiungerà; è a posteriori.

3o) Il rapporto è logicamente un tertium quid, quasi il terzo uomo di Aristotile. Esso è estrinseco alla natura dei termini; non li costituisce; non può neppure modificarli sostanzialmente. Li lega, ma essi restano ciascuno sè stesso.

4) Il rapporto è soggettivo. Rapporto che il nostro pensiero pone. La sintesi la facciamo noi; non il finito nè l'infinito, agendo, la pongono. Ed è perciò sintesi mentale e non reale; in intellectu, non in re. La religione e la filosofia che sono proprio processi di sintesi e pretendono di essere sintesi concreta, debbono apparire vani conati umani.

5) L'immanenza e la trascendenza sono concepite come immediatezza. Dio è trascendente o immanente immediate. Se si è costretti a pensare una mediazione, questa appare un modo aggiunto ed opposto ; ed ecco i compromessi d'una trascendenza ontologica che fa atto di immanenza oppure d'un'immanenza che fa atto di trascendenza. La entificazione dell'uomo e di Dio, la solidificazione della vita infinita e finita portano con sè la entificazione e la solidificazione della loro presenza.

6) I termini sono concepiti come positivi egualmente. La loro azione è solo affermativa, giacchè essi sono irriducibile identità. Ogni processo umanɔ verso il divino appare affermazione di quel sè che esso è, e non mai negazione costruttiva del suo essere nell'unità, oppure si cade nel concetto d'un pieno annullamento. Si pretende che i termini siano eterogenei: in realtà si fanno identici in questa positività.

Dato questo insieme di caratteri che rivelano le virtù e i vizi della logica dell'identità-valida per il mondo delle esistenze finite, indipendenti, esclusive caratteri che si riducono tutti al concetto che ogni realtà è un ente e quindi ogni relazione è soprapposta, le alternative tradizionali ci irretiscono. O l'identità dell' uomo con sè e di Dio con sè, che separa l'uomo da Dio con una inefficace relazione soggettiva V Congresso Filosofico.

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