Εικόνες σελίδας
PDF
Ηλεκτρ. έκδοση

filosofica o religiosa) oppure l'identificazione astratta dei due termini, che annulla uno di essi, e cioè l'immanenza empirica (panteismo volgare che divinizza il finito), l'immanenza del sostanzialismo (misticismo orientalistico che nullifica il finito e sperde la individualità).

L'intelletto non conosce che identità logiche o annullamenti ontologici. Deforma la negazione dialettica, che è creatrice, in una negaziore astratta che è distruttrice.

Teoricamente ogni soluzione è delusiva; perchè non esiste alcuna relazione bella e fatta da intendere. La relazione non è un problema per l'intelletto; è un compito per l'azione; ed il pensiero che può illuminarla è quello obbiettivo, inerente all'azione creatrice, il pensiero della sintesi reale non quello intorno alla sintesi, non quello che, staccandosi da essa, la proietta fuori di sè e la solidifica.

Dalle alternative non si esce se non abbandonando recisamente ogni posizione teoreticistica ed intellettualistica.

Non è affatto vero che il pensiero contemporaneo e l'idealismo in particolare abbiano l'esigenza di un'immanenza del tipo accennato, che sia cioè la negazione astratta del trascendente: immanenza negativa. Lo idealismo esige anche qui quella medesima soluzione che ha dissolto il soggettivismo e l'oggettivismo, esige non identità esclusive e vuote, ma sintesi reale di differenze. E se nega la trascendenza come astratta oggettività, deve negare l'immanenza come astratta soggettività. L'immanentismo è coevo e coerente con la filosofia della sostanza; con essa nasce e con essa perisce. L'immanentismo, quell'immanentismo è incongruo con una filosofia della realtà quale spiritualità autonoma e distinta. Ha senso in quelle filosofie dell'ente, e in quelle posizioni oscillanti sul piano dualistico, che debbono essere superate. È atteggiamento polemico di fronte a un dualismo segretamente presente, astratto superamento di questo.

In una concezione che risolve l'ente in attività (per cui è quel che fa, è quel che intende, è quel che ama), in una concezione che vede nelle determinazioni oggettive la costituzione progressiva del soggetto, in una concezione che, fedele alla spiritualità del reale, pensa le esistenze come inclusive mutualmente e fuga ogni monadistico concetto di realtà indipendenti, in una concezione per cui la sintesi concretamente creatrice genera essa i termini come sue interne e necessarie distinzioni, in una concezione per cui il processo reale non è un rettilineo e pro

gressivo sviluppo germinale ma una perenne integrazione a cui è necessaria la negazione dell'inferiore affinchè il superiore si determini, in una concezione che respinge ogni immediatezza e perciò respinge tanto un'immanenza che sia fatto non azione, quanto una trascendenza che sia fatto non azione, in tale concezione non vi è posto per nessuna delle due alternative.

Queste appaiono momenti intellettualistici, riproducenti le difficoltà e le posizioni di analoghi contrasti (soggetto-oggetto, anima-corpo, universale-particolare). Queste appaiono esigenze dell'intelletto che comunque soddisfatte reclamano altre soluzioni reali. Queste appaiono, quel che sono, soggettive e perciò inefficienti soluzioni della nostra riflessione, che invincibilmente si oppone a una realtà solidificata, per sè stante.

La vita, specialmente religiosa, è la solutrice reale: sintesi che vincen 'o ogni immediatezza, ogni esclusività, ogni indipendenza irrelativa-immediatezza, esclusività, irrelatività poste dalla nostra riflessione — è perenne adeguazione della nostra esistenza alla nostra essenza, perenne atto che supera quel che già siamo e conquista quel che dobbiamo essere, sintesi in cui rivelano la loro astrattezza l'infinito in sè e il finito in sè, e che, essa, pone insieme con la loro concreta unità, eternamente in atto, la loro concreta distinzione in cui solamente il finito, non più irrelativo, pone la sua finitudine e l'infinito non più negativo fa atto di infinitudine; sintesi che richiede le differenze, che anzi accentua ed invera le dualità, perchè non è l'astratto, neutrale, indifferente concetto di ciò che i termini hanno in comune, ma unificazione, sistema organico di distinti.

Ogni atto umano ci conduce ad essa, ogni atto umano schiude la prigione dell'io e ci realizza, e ci determina come altro. La religione in modo specifico è la sintesi stessa. Non prepara l'unità; è l'unità. Ed il processo religioso nella storia è l'eterno approfondimento della unità.

ANTONIO RENDA R. Università di Napoli

Il rito della cremazione e lo spiritualismo
della razza ariana.

Quanto io dirò ora, fa seguito ad una serie di idee già da me esposte nel penultimo congresso della Società Filosofica Italiana in Roma e che mi è qui indispensabile riassumere.

lo distinguevo anzitutto nel ritmo del pensiero un momento assuntivo ed un momento critico o filosofico. Nel primo, lo spirito assume alcuni principi o postulati o valori, li considera come stabili e fissi e, facendo fulcro su di essi, precede alle loro applicazioni teoriche o pratiche, deduce e opera e muove alla conquista, al dominio del mondo. Nel momento critico o filosofico, invece, di fronte agli immancabili insuccessi di quelle sue temporanee e sempre imperfette assunzioni, esercita su di esse una azione critica, torna a ridiscutere cioè le sue assunzioni, i suoi postulati, i suoi principi, i suoi valori già assunti per dar luogo ad assunzioni nuove e più feconde.

Il pensiero non può arrestarsi in modo assoluto nè sul primo nè sul secondo momento. È necessario che esso assuma dei piani della realtà come se fossero definitivi per poter operare, ed è necessario che ridiscuta, riapprofondisca e rinnovi questi piani.

Tuttavia è evidente che in questo o quell'individuo può prevalere una naturale tendenza a contentarsi delle assunzioni, a dedurre da esse, ad applicarle, ad operare in base ad esse, oppure una tendenza a ridiscutere, riapprofondire, rinnovare le assunzioni.

Non solo, ma io credo che si possa riconoscere addirittura in alcune stirpi umane il prevalere della tendenza a contentarsi delle assunzioni, a dedurre da esse ed a costruire su di esse, ed in altre stirpi la capacità più spiccata a riapprofondire sommuovere e rinnovare le assunzioni. Il che vuol dire che qualche grande stirpe umana può avere uno spirito filosofico più vivo, più attivo di un'altra.

E posi la mia tesi: Fra le quattro grandi stirpi che dettero la civiltà al mondo eurasico: la razza mongolica, la razza mediterranea, la

razza semitica, la razza ariana, l'attitudine a criticare, a rompere, a rinnovare le assunzioni, cioè a filosofare, è notevolmente più viva e più squisita nella razza ariana che non nelle altre.

I semiti pongono sino dall'alba della loro civiltà, sino dall'apparire loro nella storia, alcuni valori fondamentali mirabilmente forti e profondi e alcune chiare e semplici idee sulla realtà del mondo e sulle leggi che la governano. Su questo piano di assunzioni essi deducono, pensano, operano da millenni. Sentono potentissimamente alcuni fondamentali valori morali e ne riferiscono l'origine ad un comando divino; non li discutono, non sollevano il dubbio atroce che cosa sia il bene e che cosa sia il male. Creano quei mirabili codici che sono il codice di Hammurabi, la Bibbia, il Corano, senza si può dire, aver mai veramente discusso che cosa sia il bene, che cosa sia il male e donde essi vengano.

Allo stesso modo essi, sulla assunta e quasi indiscussa realtà oggettiva del mondo, creano tutta una grande scienza, come l'astronomia assiro-babilonese, ma essi non si pongono mai nè come assiri, nè come israeliti, nè come arabi originari, il problema se questo mondo materiale che ci apparisce sia il mondo reale e se i valori assunti dagli avi siano veramente i valori ultimi e supremi.

Qualche cosa di molto simile accade anche presso gli egiziani. Magnifici costruttori sul piano delle loro assunzioni, costruttori di vaste organizzazioni politiche, di profonda scienza tecnica, possenti in tutte le applicazioni possibili, essi non hanno però ridiscusso ed approfondito nè la realtà apparente del mondo, nè i valori comuni della vita. Immenso corpo con assai piccola anima, il grande Impero Egiziano nulla lasciò, si può dire, di quei fecondi approfondimenti della realtà e dei valori che hanno dato via via le nuove impronte alla storia degli uomini.

E se noi riguardiamo dall'altra parte del grande continente eurasico troviamo una stirpe mongolica che, essa pure, per millenni e millenni pensa, organizza la vita, sviluppa la scienza e la tecnica, ma sempre sopra un piano di assunzioni quasi immobile. La filosofia cinese nei primi tempi, quando essa è più originale, è in grandissima parte una tecnica della felicità, uno studio dei mezzi adeguati per conseguire semplicemente quella felicità che è data e accettata come valore supremo e si può dire per sempre indiscusso. Una sola idea speculativa che apparisce nella filosofia cinese, l'idea del Tao di Lao Tse, si mostra come uno sforzo di superare il piano delle apparenze sensibili, ma tutti

sanno che questa idea non è di origine mongolica, è una idea di origine bramana cioè ariana, e il suo carattere di idea importata ed estranea allo spirito del popolo si conferma nel fatto che essa nel mondo mongolico degenerò subito verso la più materialistica superstizione e che non fu nè accompagnata nè seguita da nessun altro serio tentativo di speculare.

Nel mondo mediterraneo noi abbiamo certo una antichissima stirpe non ariana, gli uomini delle nostre età neolitiche ed eneolitiche, quelli dai quali sorse la grande civiltà di Creta, parenti probabilmente di quelli dai quali sorse la civiltà egiziana. Poco sappiamo del loro spirito, ma questo sappiamo di certo che, dovunque essi furono raggiunti dalla civiltà ariana, lo spirito ariano impose ad essi lingua, religione, riti funerari, tutto quanto ha rapporto con la vita dello spirito, quantunque essi fossero tecnicamente di gran lunga più progrediti degli ariani invasori. Per quanto poco sappiamo di questi mediterranei, un tale fatto basta a farci supporre in essi una spiritualità ed una mentalità inferiore e meno profonda di quella degli ariani che sopravvennero.

Pertanto di fronte a queste tre grandi stirpi, la mediterranea (che possiamo considerare come comprendente anche l'Egitto) la semitica, la mongolica, si erge la razza ariana con una sua profonda e viva caratteristica: quella di ripensare e riapprofondire con una divina inquietudine i piani delle sue assunzioni. Là dove questa razza era più pura e dove aveva sopraffatto più interamente le stirpi autoctone, cioè in India, questa stirpe, già più di mille anni prima di Cristo, nella ardita e profonda speculazione delle Upanishad aveva trionfalmente superato tutto il piano comune delle assunzioni umane. Aveva guardato di là dagli oggetti materiali, dissolvendo gli oggetti materiali in una realtà più profonda, aveva guardato di là dalle divisioni individuali, da tutti gli altri popoli assunte come stabili, per pensare l'unità degli spiriti nello spirito universale. Aveva sovvertito tutti i piani delle assunzioni teoriche, aveva ridiscusso tutti i valori più comunemente e universalmente accettati. La felicità, il piacere, la stessa vita individuale, beni per tutti gli altri indiscussi, erano stati dalla sua critica superati, polverizzati, annullati.

E da allora la speculazione dell'India continuò sempre, come per una divina dannazione, a ridiscutere, a riapprofondire le assunzioni della realtà e dei valori.

E fu soltanto, si noti, fu soltanto in un ramo distaccato di questa

« ΠροηγούμενηΣυνέχεια »