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Diritto e forza.

Scopo della presente comunicazione non è quello di trattare a fondo il problema del diritto e della forza, intorno al quale ho già svolto con una certa ampiezza il mio punto di vista in due successive pubblicazioni (1), sibbene quello di sviluppare qualche questione in esse solo accennata o non sufficientemente lumeggiata.

La prima questione, sulla quale ritengo di dovere richiamare l'attenzione degli egregi colleghi di lavoro di questa Sezione, dà luogo al seguente quesito: vi può essere un diritto privo assolutamente di forza? Se ad un diritto non è congiunta una forza bastevole a difenderlo, si dovrà dire che esso non costituisce perciò diritto o che esso perciò cessa di essere diritto ?

Ora io sostengo che non esiste un diritto privo assolutamente di forza. Secondo me, occorre riconoscere che non c'è diritto che non abbia un minimum di forza, sia pure quello che perviene dalla semplice idea del diritto. Grozio scriveva che il diritto non ha il suo effetto esteriormente, se esso non è sostenuto dalla forza, e rammentava a tale proposito che Solone riconosceva non avere egli fatto grandi cose se non mescolando saggiamente la forza con la giustizia. Ma aggiungeva subito: non essere il diritto intieramente senza effetto, allorchè esso è destituito del soccorso della forza. Ed a prova del suo asserto rilevava come l'osservazione della giustizia metta il cuore in riposo, e come invece l'ingiustizia produca al contrario, nel cuore di coloro che ad essa si abbandonano, crudeli tormenti. Osservava inoltre come cosa ancora più importante, come l'ingiustizia abbia Dio per nemico, e la giustizia al contrario sia l'oggetto del suo amore e del suo favore, come, ciò essendo, Dio non

(1) E. Di Carlo, Forza e Diritto (Comunicazioni tenute nel Maggio 1916 alla Biblioteca Filosofica di Palermo), Palermo, 1918, ed. Reber; Forza e Diritto (Discorso tenuto il 26 Novembre 1922 nell'Università di Camerino per l'inaugurazione dell'anno accademico), Camerino 1923. Stab. Tip. Successori Savini Mercuri,

riservi talmente i giudizi per un'altra vita, che egli non ne faccia sovente provare il rigore in questa terrena, siccome la storia, sempre secondo Grozio, per parecchi esempi dimostrerebbe (1).

Adunque, secondo l'Autore del De jure belli ac pacis, un qualche effetto il diritto sprovvisto di forza lo ha sempre; non l'effetto esteriore, che ha il diritto, quando lo sussidia la forza in grado sufficiente; è un effetto tutto interiore, e cioè il rimorso nel caso di offesa al diritto, la gioia nel caso contrario. Ma a queste efficienze di carattere interiore Grozio aggiunge le punizioni, che Dio infligge già in questo mondo a coloro che si rendono colpevoli di ingiustizia.

Ora indipendentemente dalle considerazioni di Grozio, io dico che, se si tratta veramente di un diritto, un minimum di forza ad esso aderirà; se non altro sarà la forza, di cui il diritto come idea è munito.

Il diritto come idea in generale è forza, forza che ha profonde e salde radici nel nostro essere; in certi momenti, esso anzi sprigiona una energia straordinaria, una energia capace di vincere da sola tutte le resistenze o le opposizioni. La forza, fatto fisico, invano di sè sussidierebbe il diritto, se il diritto per sè stesso non fosse forza. Ciò non esclude che talvolta nella storia si dia lo spettacolo della forza che difende o protegge l'ingiustizia; ma questa constatazione non distrugge la verità del punto di vista dianzi formulato. Il diritto è per sè forza, anche minima, cui, in quanto e perchè forza, la forza, fatto fisico, sussidia di sè.

Quando io parlo di un tale diritto, cui non può mancare un minimum di forza, io mi riferisco al diritto assoluto, a quella realtà ideale cioè, che è sola capace di fondare la realtà empirica dei diritti relativi, che son poi quelli con cui noi abbiamo da fare. Essi diritti relativi, però riflettono più o meno quello assoluto, ma la confusione tra l'uno e gli altri sarebbe esiziale allo stesso diritto assoluto.

E vengo alla seconda parte del quesito. Non sempre aderisce al diritto una forza bastevole a difenderlo; allora il diritto, che non può attuarsi, non è diritto o cessa di esserlo, nel caso che prima si realizzava? Anche qui la risposta non può essere che negativa. Faccio mio il pensiero di Antonio Rosmini, il quale scrisse che non è punto necessario

(1) Grozio, Le droit de la guerre et de la paix. Nouvelle traduction par I. Barbeyrac, Basle, 1746, p. 13-4.

a costituire un diritto, che esso abbia almeno una forza bastevole a difenderlo.

Se fosse vera la tesi qui da me oppugnata, allora il diritto sarebbe uguale alla forza, mentre che la forza è il mezzo di cui si avvale il diritto, ed il diritto non si esaurisce nello strumento suo, non può identificarsi con questo. Se fosse vera la tesi che io combatto, ne verrebbe meno l'autonomia del diritto rispetto alla forza; il diritto, in questa concezione, sarebbe come l'ombra che segue il corpo. Se il corpo c'è, c'è anche l'ombra; se il corpo non c'è, l'ombra non c'è più.

Il diritto sarebbe alla dipendenza della forza, qualche cosa che esiste e sussiste non per virtù propria, ma come conseguenza di altra esistenza, l'anima che esiste per effetto del corpo, mentre l'anima se ha una esistenza sua, autonoma, non può essere una conseguenza, quasi un epifenomeno del corpo.

Ugualmente non cessa un diritto, perchè vien meno la forza che lo sosteneva. Che cosa mai può cessare? io mi domando. Il diritto realtà ideale, al quale aderisce una positività sua propria, caratteristica, con mezzi specifici di rivelazione, specifiche sanzioni (vi è una positività del diritto naturale) cessa, perchè è cessata la forza che lo proteggeva? Che diritto è mai questo, io mi chiedo col Rousseau, che perisce quando la forza cessa? (1). È un diritto per modo di dire, se la sua sorte è legata in siffatto modo alla forza, che venendo meno questa, cessa di sussistere quello. Ma se un momento prima era diritto, come avrà potuto cessare di essere tale un momento dopo, solo perchè fa difetto la forza che lo rendeva esigibile? Che cosa è di nuovo intervenuta da un momento all' altro? I sostenitori della teoria che lega l'esistenza del diritto alla forza che lo sostiene, rispondono: è venuta meno la forza. Ciò basta per essi per poterne concludere che il diritto, da essa protetto, è pure cessato di esistere. Ma la conclusione non è ammissibile. Il diritto non subisce una diminuzione nell'esser suo di diritto, nè tanto meno perde la sua qualità, che non viene ad esso conferita da una contingente autorità, per il fatto che il sostegno empirico, che esso fino ad un certo momento trovava, è stato nell'urto degli eventi umani spezzato o scosso. Il diritto non muore; come l'anima resiste vittoriosamente allo

(1) Cfr. Rousseau, Du contrat social ou principes du droit politique (in Collection complète des oeuvres de I. I. Rousseau, Tome second, Génève, 1782), p. 11.

sfacelo del suo corpo, così anche il diritto permane e sussiste, infranta anche la forza che fino allora aveva costituito la sua esterna tutela. Selvaggia dottrina è, per dirla col Rosmini, quella che ritiene venir meno il diritto, quando nessuna forza lo sussidia; selvaggia « perchè sacrifica i diritti del debole, mentre questi non sono meno sacri di quelli del forte, e meritano bene che almeno li difenda la voce dei savi, imprimendo più altamente colle parole e cogli scritti negli animi di tutti quella persuasione, che già la natura da sè vi pone, cioè che i diritti debbono rimanere inviolati, benchè nessuna difesa li tuteli e li protegga » (1).

Dalle precedenti considerazioni risulta che il diritto, mentre ha bisogno della forza per realizzarsi, non è la forza, di cui esso si avvale. Ma quale è il rapporto intercedente tra diritto e forza? Vi è un nesso tra diritto e forza; esso è un nesso categorico, e cioè non è un nesso accidentale, estrinseco, ma un nesso essenziale. Forza e diritto formano tra loro una coppia categorica, e, come i termini di ogni coppia categorica, stanno tra loro in una corrispondente antinomia (2). Questo particolare nesso esistente tra forza e diritto fa sì che il diritto tende a crearsi la forza di cui ha bisogno (proprio come l'anima tende a formarsi il suo corpo secondo Leonardo da Vinci) e la forza reciprocamente tende ad attrarre a sè un'anima, a diventare giuridica, stesso a redimersi.

e per ciò

È un doppio processo: un processo di discesa del diritto verso la forza, e di ascesa della forza verso il diritto: doppio processo necessario perchè il circolo della realtà si chiuda.

Come il diritto cerca la forza e se la incorpora, così la forza cerca il diritto, il diritto che la redima.

Non c'è forza che non sia capace di acquistare un minimum di giu idicità; qualunque forza può gettare lungi da sè il fardello delle sue malefatta e farsi un'anima migliore o un'anima, nella quale del passato non esista nemmeno il ricordo. Possibilità di redenzione come c'è per qualunque uomo, che abbia sulla coscienza i più neri delitti, le infrazioni più gravi alla legge morale, così c'è per qualunque forza; la forza trova nel diritto il suo lavacro che la purifica da ogni bruttura, il fuoco che distrugge ogni sozzura.

(1) Cfr. Rosmini, Filosofia del diritto, 2. ed. napoletana, 1856, vol. I, p. 86. (2) Secondo quanto pensa il Dott. S. Amato Pojero di Palermo.

È stato detto che i più forti diventano i più giusti; ma, essendo il processo doppio, bisogna anche parlare dei più giusti che diventano i più forti; in tale incontro tra l'ideale e il reale, tra il diritto e la forza consiste in concreto tutto il problema.

Ma il particolare nesso intercedente tra diritto e forza, per il quale diritto e forza si aiutano e si sostengono a vicenda (il diritto moralizza la forza, la forza dà consistenza al diritto e fa sì che il diritto, come dice il Leibniz, diventi fatto), non esclude la possibilità del contrasto e della lotta. In seno alla coppia stessa, formata da due antinomie corrispondenti, può accadere che la forza, legata al diritto per sostenerlo soverchi questo e la faccia da despota; in questo processo si può arrivare per gradi successivi fino a un limite estremo, in cui il diritto rimane spettatore impotente delle esorbitanze della forza, che pur doveva proteggerlo.

Ma vi è ancora il caso del contrasto e della lotta tra la forza che vuole instaurare un nuovo diritto e il diritto positivo, cui assiste la forza. Il diritto nuovo, che non ha avuto ancora alcuna consacrazione nel diritto positivo e vive al di fuori di questo allo stato di idealità, preme ed urge perchè trovi il riconoscimento, al quale esso aspira. Vi è un momento in cui esso, impaziente di più oltre attendere, ricorre alla forza estralegale per informare di sè, del suo contenuto, il diritto positivo. Scoppia allora la lotta tra il diritto positivo, che vuol conservarsi (c'è un diritto alla conservazione dell'ordine costituito), e il nucvo diritto (c'è un diritto anche alla rivoluzione). Nel cimento o il diritto positivo resiste e si conserva più puro e nello stesso tempo più forte di prima, oppure si ecclissa e cede al diritto nuovo; sicchè per il diritto positivo, che è diritto relativo, si pone la questione: o rinnovarsi o perire. È que

sto un cimento inevitabile e salutare.

I due diritti in conflitto sono diritti relativi, che più o meno riflettono quello assoluto, e appunto perchè relativi, possono venire in conflitto tra loro. Ciò non implica alcuno scetticismo rispetto alla realtà ideale del diritto assoluto, nel quale la realtà empirica dei diritti relativi trova il suo fondamento. Il diritto assoluto, realizzandosi, non può non avere, per così dire, successive incarnazioni; non c'è qui un'offesa al diritto assoluto, ma una conferma, anzi, della sua verità.

L'esistenza di esso diritto assoluto, distinto dal diritto positivo, è la

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