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che se, poi, l'uso che ne fa l'una è diverso dall'uso che ne fa l'altra. Vuolsi altresì notare che da tempo s'è smesso di parlare di filosofia militare; ma non se ne potrà tacere più a lungo (diciamo filosofia, non metafisica). La pedagogia militare, rifacendosi necessariamente alla psicologia, alla gnoseologia, alla logica, alla storia, conduce alla ribalta della scienza militare la filosofia. E' come dire che ov'è azione sostanziosa, ivi è pensiero che la crea; pensiero che non può restare molto tempo in ombra, nè trascurarsi, altrimenti la fonte delle azioni fruttuose si inaridisce, e l'arte degenera, si svia dietro l'accidentale, dietro le parvenze, e alla fine si perde.

Colonnello EPIMEDE BOCCACCIA

R. Scuola di Guerra - Torino

Tradizione e cultura regionale.

Nei cinque lustri dal secolo ventesimo, molte idee nuove si sono affacciate sull'orizzonte della pedagogia, molte, che parevano vecchie e fuori corso, sono tornate di moda, molte anche sono rinate dalle ceneri del passato. La pedagogia stessa (chiusa, per l'innanzi, entro formole tradizionali scolastiche, e di solito così rigida e composta), s'è fatta battagliera, assumendo atteggiamenti di ribelle e di rivoluzionaria, guadagnando, naturalmente, terreno e attirando l'attenzione di tanti che prima non s'erano neppure accorti della sua esistenza.

La prevalenza di certe idee fra il grande pubblico ha indotti gli stessi riformatori a tenerne conto e, più d'una volta, ad aprir loro le porte delle nuove leggi e dei nuovi programmi.

Mentre, per dirne una, aveva, fino a ieri, imperato sul campo della cultura il concetto unitario, inteso nel modo più rigido, e imposto dalla necessità di cementare e tenere unite le sparse membra della Patria, straziate per secoli da divisioni politiche e da civili discordie, oggi, a unità politica, morale e culturale consolidata e incrollabile, invale il desiderio di temperare quella rigida unità con qualche riguardo al regionalismo, si fa sentire più vivo il bisogno di svincolarsi da quella uniformità deprimente e umiliante, di trattenere in vita la tradizione demologica, storica, artistica, culturale che minaccia di dileguare, e che

forma quasi il volto spirituale di una regione, la sua vera ragione di vita propria e, pur nell'ambito della nazione, autonoma. Ora è avvenuto appunto che il riformatore delle nostre scuole medie e primarie ha sentito la virtù della nuova tendenza, non superficiale nè transitoria, della cultura italiana, ha intuita l'arcana bellezza di tutto ciò che ci apparì e che noi diligemmo negli anni della adolescenza e della giovinezza, e, dispone che la scuola lo ravvivi, lo ricomponga nelle sue parti, e ne nutra le menti giovinette, in cui l'affetto può più che la ragione, il sentimento più che il raziocinio.

Egli ha, così, riabilitato la tradizione, nei suoi innumerevoli aspetti e nella sua stragrande importanza. La tradizione nazionale, regionale e locale, è forza viva e operosa, è forza perenne; scende da scaturigini irraggiungibili, si accresce, si purifica, si nobilita ad ogni svolto della sua discesa; trasporta il meglio delle opere umane, le sintetizza, le converte in virtù operatrici, le porge a norma dell'avvenire, domina quasi inavvertita la vita di un popolo, impera, signora invisibile, uomini e volontà. La tradizione è in noi e attorno a noi; involge tutti gli atti dell'uomo, morali e intellettuali, conduce e guida la mente e la mano di ogni operatore, dalla bottega all'officina, al campo del rude lavoro, dal telaio al pergamo e alla tribuna. Lettere ed arti sono in suo dominio; e raro avviene che se ne svincoli, nè mai per intero, qualche spirito eccelso. Essa contrassegna la fisonomia di un popolo e ne scolpisce le stigmati sempiterne. Noi tutti siamo figli di lei e, a nostra volta, suoi propagatori e continuatori, consapevoli e inconsapevoli. E' la nostra forza e anche la nostra debolezza; noi siamo un attimo della tradizione, siamo, in una parola, la tradizione stessa.

Su questo fatto o concetto, di importanza senza pari per l'educazione della gioventù, i vecchi programmi non richiamavano neppure la attenzione dei docenti, così che la tradizione fu abbandonata al suo corso fatale.

Elevando a più alto valore la cultura regionale, riabilitando e rivalutando la tradizione, il riformatore non ha temuto, come forse altri temettero, che l'unità morale o culturale della nazione fosse per soffrirne detrimento. Comprese, anzi, che le intime doti e le specifiche virtù delle diciannove regioni, ancorchè bene distinte e talora anche contrastanti, più acconciamente segnalate e conosciute, e insieme fuse, avreb

bero ridato vigore nuovo, quasi una nuova giovinezza, al corpo esausto e intorpidito della nazione.

E ha chiamato tutte le regioni d'Italia, tutte fe forze vive in ciascuna regione, a mettersi in linea, a risalire in valore, per contribuire tutte, secondo il loro diverso potere, a preparare il nuovo cittadino di una grande nazione che vuole ritrovare se stessa e pervenire a quelle mete che la storia e le proprie attitudini le hanno ineluttabilmente segnate.

Oserei dire che il Riformatore non poteva comportarsi diversamente le supreme leggi della pedagogia dovevano inevitabilmente ricondurlo alle fonti vive così dell'arte come della scienza, così della realtà come della tradizione, al popolo, insomma, eterno depositario di tutto ciò che ha virtù di vita perenne.

Quando il legislatore si propose di trarre profitto dalla tradizione popolare, rovesciò un convincimento che pareva generale, non condiviso però mai dai folkloristi e demopsicologi, che predicavano il contrario da decenni, come possono attestare opere notissime del D' Ancona, dell'Ascoli, del Nigra, del Gianandrea, del Pitrè e di cento altri studiosi. Constatò il legislatore, che lo scolaro non è una tabula rasa su cui si debbano registrare dall'a alla z tutte le cognizioni, ma una specie di libro male stampato e spropositato, dove, tra molte pagine bianche, siano accolti sgorbi ed errori d'ogni natura. Lo scolaro porta a scuola il piccolo mondo famigliare, porta, via via crescente, il tesoro tradizionale del suo popolo e della sua condizione, che forma, per così dire, la base dell'edificio che l'insegnante deve costruire. Quanto sia ampio e ricco quel tesoro solo pochi possono comprendere; ma chi si è mescolato col popolo vero sa che è realmente vastissimo. Io ho conosciuto giovinette del popolo che sapevano a memoria migliaia (dico migliaia) di canti, che conoscevano fiabe e leggende in gran numero, che avevano in testa tutte le ricette della medicina popolare. Chi vuole avere un'idea di quel Thesaurus, veda i 25 volumi del Pitrè sul folkore della Sicilia. Un tesoro così vasto e vario non poteva essere negletto come cosa trascurabile, nè è ignorato dagli educatori; doveva, al contrario, essere posto a base di tutta l'opera che l'insegnante è chiamato a svolgere. Quind' innanzi egli, mettendosi a tu per tu con lo scolaro, saprà bene quale sia il suo dovere e il suo compito: correggere e combattere ciò che nella mente del fanciullo è sbagliato, ampliare, avvivare e com

pletare ciò che è vero e bello; correggere, in altri termini, gli spropositi di quel libro, riempire le sue pagine bianche.

Che la regione esista, come risultanza di una secolare successione di avvenimenti, i quali determinarono la sua attuale entità e figura, diversa da tutte le altre; che un affetto vivo leghi, con vincolo naturale, ogni persona alle cose più vicine e più note, ai monumenti, agli avvenimenti della propria regione, nella quale vissero e operarono, non quelli che, per finzione rettorica, sogliamo chiamare i nostri avi, ma quelli che nostri avi e bisavi, nostri genitori e progenitori furono realmente ed effettivamente; che il discorso di tali cose, di tali monumenti, di tali avvenimenti riesca più interessante, più attraente, più persuasivo, vede da sè ogni colta persona. E la scuola avrebbe potuto seguitare a non accorgersene, a impartire un insegnamento uniforme a Palermo, come a Roma o a Milano, nella Puglia come nel Piemonte? Se la scuola si propone di mettere l'alunno in condizione di valutare a dovere le cose che gli stanno attorno, per dominarle a norma della sua vita, come poteva staccare l'alunno dall'ambiente, così materiale come morale, in cui questi respira, vive e si muove? La vita dell'alunno s'inizia nella famiglia, si avvia nel comune, si allarga alla regione, alla nazione, al mondo: chi imparte la cultura deve battere la medesima via. Se nel suo ufficio, che è quasi di creazione spirituale, più che qualunque altra nobilissima, di formare i caratteri, di preparare gli uomini nuovi, dimentica quanta forza educatrice si nasconde nei sentimenti bene indirizzati, che l'ambiente suscita e inspira, commette errore non meno grave che pernicioso.

Ben lo vide il riformatore. Il quale si pose dinanzi agli occhi della mente l'alto problema e si propose di accogliere nel programma tutto il complesso di fatti, di tradizioni, di realtà viva e parlante, ed anche di possibilità, ond'è composta la regione, donde la cultura regionale discende. E impose a tutti gl'insegnanti di esporre ai giovani, o di utilizzarle per il loro insegnamento (chè la materia regionale a volte è fine a sè stessa, altre volte ha pura funzione pedagogica, perchè più vicina e più comoda) l'arte, la letteratura, la storia, il folklore, nei suoi molti aspetti (letteratura popolare, canto, novellistica, pregiudizi, usi e costumi, ecc. ecc.), il dialetto, la geografia, la geologia, la zoologia, l'astronomia, la mineralogia e poi l'agricoltura, l'industria, il commercio, il paesaggio e la realtà che circonda lo scolaro, insomma ogni disciplina storica o scientifica, ogni fatto e ogni manifestazione che concorrano alla determina

zione della regione nella quale il Maestro insegna e lo scolaro apprende, dove ambedue si muovono e vivono.

Per esprimerci più esattamente, diremo che il Ministro impone che si faccia ricorso alla cultura regionale e popolare per ogni insegnamento, tutte le volte che sia possibile: nell'insegnamento della lingua per mezzo del dialetto; della letteratura e della storia, mediante riferimenti assidui a quelle regionali; della religione, mediante letture scolastiche sulla tradizione agiografica locale; della geografia, mediante richiami al comune ove s'insegna e alla regione di cui il comune fa parte; del disegno, mediante la riproduzione di animali, piante e paesaggi del luogo; dei lavori donneschi, mediante imitazione di prodotti artistici locali; del canto, mediante l'esecuzione di canzoni e cantilene regionali, tradizionali; dell'igiene, mediante l'esposizione di malattie locali; e poi nelle occupazioni intellettuali imposte per le scuole elementari, mediante apprendimento e ripetizione di scioglilingua, di filastrocche, di indovinelli ecc., nell'arredamento delle aule, mediante piante della città, riproduzione di opere d'arte cittadine o regionali, e così via di seguito, in ogni manifestazione della vita scolastica.

Non si può passare oltre, però, senza aver rilevato che quando il Riformatore ha detto al maestro: abbi riguardo alla tradizione, accennando, di preferenza, alla tradizione locale, gli ha detto anche, necessariamente: purchè raggiunga certi fini, tu sei libero di usare i mezzi che più ti piacciono. E glielo ha detto, esplicito, nel primo periodo della Premessa ai programmi; proprio in capite libri. Giustamente.

<< I programmi di studio, che qui si descrivono, vogliono avere, più che altro, un carattere indicativo. Si addita al maestro il risultato che lo Stato si attende dal suo lavoro, in ciascun anno di scuola, pur lasciandolo libero di usare, per ottenerlo, i mezzi opportuni. I quali, per molte ragioni, sono sempre varii e mutevoli, in rapporto alla situazione concreta nella quale il maestro si trova, in un dato ambiente scolastico, ed in rapporto con la personale cultura del maestro e con la particolare tempra che egli sarà riuscito a fare, attraverso una vigile esperienza al proprio spirito di educatore ». Così la cultura regionale si collega con la autonomia del maestro, contribuendo entrambe alla rigenerazione della scuola. Solo a questo patto la cultura regionale poteva trionfare, e appunto per questo la riforma non ha imposti ai docenti programmi di in

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